San Giovanni identifica la Luce con la Vita, cioè con la Vita divina. Dio è Luce. «Chi cammina nella luce» entra a far parte della Comunità di Gesù, che è Luce del mondo.
Luce vera, che illumina ogni uomo. Illumina dall’interno; chi appena è toccato dal raggio di Luce che è Gesù, diventa a sua volta una sorgente luminosa, press’a poco come succede dell’acqua viva di cui parla Gesù.
Lui darà l’acqua viva, ma quest’acqua viva diventa, in chi la riceve, una «sorgente d’acqua zampillante nella vita eterna» (Gv 4,14). Si effettua sempre il seguente prodigio: toccati dalla luce si diventa luce; irrigati di acqua, si diventa sorgenti; colpiti dall’Amore che è Dio, si diventa fonte di amore.
Egli veniva nel mondo. Questa frase Giovanni la tradurrà in un’espressione ancora più potente: «E il Verbo si è fatto carne».
Era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui ma il mondo non lo riconobbe.
Il mondo, l’universo, l’umanità. Il mondo che non riconobbe il Verbo sono le forze ostili a Gesù, dominate da Satana; cioè sono le tenebre. Le tenebre rifiutano la Luce; le tenebre sono in noi, prodotte dal peccato; si ricompongono continuamente come banchi di nebbia. Bisogna che la Luce penetri continuamente in noi.
Venne in casa sua (il popolo eletto, Israele) e i suoi non lo accolsero: ecco il rifiuto d’Israele.
Ma a quelli che lo accolsero (accogliere vuol dire ascoltarne la parola; Giovanni dirà più tardi «credono nel suo Nome»; credere = ascolto della Parola; il nome è la realtà più profonda dell’essere, perché nel nome è presente chi lo porta), dette il potere di diventare figli di Dio. Ecco il sogno di Dio Padre su ciascuno di noi: renderci conformi all’immagine del Figlio suo; divinizzarci, renderci figli di Dio.
A quelli che credono nel suo nome, lui che né sangue, né volere di carne, né volere di uomo ma Dio ha generato.
Secondo questa lettura del Vangelo di San Giovanni in alcuni codici, si parla della nascita verginale di Gesù. Secondo altri codici si legge: «quelli che credono nel suo nome, i quali né sangue, né volere di carne, né volere di uomo, ma Dio ha generato»; si parla allora della nostra nascita verginale, da Maria per opera dello Spirito Santo, che si realizza soprattutto nella morte. Con la morte si tocca il vertice dell’amore; la morte ci introduce nell’eternità. L’istante della morte è illuminato dal Cristo; è un istante che partecipa di questo tempo e dell’evo, dell’eternità, come in uno spartiacque difficilmente definibile.
Nella frase «il Verbo che illumina ogni uomo» c’è in germe la teologia degli infedeli.
Al versetto 14 scocca la frase folgorante: «E il Verbo si è fatto carne» (carne, nel significato di S. Giovanni, indica sempre l’essere umano vulnerato dal peccato e dalla morte; quindi nella sua estrema fragilità). Il Verbo è Dio; la carne è l’uomo: due poli. Tra questa bipolarità, cioè tra questi due poli, si
ha la scintilla, che è Gesù, interamente Dio e interamente uomo. Gli estremi si toccano.
Stamattina avevo spiegato alla gente in chiesa questa frase, con la stessa immagine della bipolarità, dell’infinito fuso con il finito. Arrivato in sacrestia, uno dei ragazzetti che mi serviva la Messa, Elio, un ragazzo di quarta elementare, mi dice: «Adesso ho capito quello che noi saremmo se non ci fosse stata (e usò una parola difficile) questa collisione» (io non avevo detto la parola «collisione»; lui sì). Collisione: fusione e amalgama dell’infinito col finito.
E dimorò tra noi: piantò la tenda, il tabernacolo in mezzo a noi. Dal contatto dell’infinito col finito, noi ci sentiamo avvolti interamente dall’amore di Dio, e ci sentiamo di amare il prossimo.
Poi il prologo diventa un inno corale: «noi abbiamo contemplato la sua Gloria». Gloria nel significato ebraico indica luce, oltre che maestà. «Il Verbo era la Luce vera». Quando «il Verbo si è fatto carne» noi abbiamo potuto «contemplare la sua Gloria». Giovanni rivive l’esperienza della Trasfigurazione di Gesù sul monte; «mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (Le 9,29). È un anticipo della nostra risurrezione, della nostra divinizzazione.
Gloria che come Figlio unigenito egli ha dal Padre, è la stessa Gloria del Figlio unigenito; unigenito vuol dire anche dilettissimo. Figlio unigenito che è venuto per renderci figli; noi siamo figli nel Figlio.
Pieno di Grazia e di Verità. Grazia è fascino, grazia è bellezza, grazia è la vita divina. Verità è Luce, è Vita, è Amore.
L’isolamento, male del tempo
Noi siamo figli nel Figlio. Solo in Gesù noi possiamo ritrovarci a fare comunità. Solo Lui ha rotto il nostro isolamento. Il peccato ci aveva dissociati in noi stessi, nei fratelli, nella natura, e in Dio.
Peccato, nel significato ebraico, significa macchia; la parola «stài» (peccato) indica anche bersaglio fallito, rottura, dissociazione o, con un termine marxista, alienazione. Nel significato greco « amorfìa » indica strada sbagliata, deviazione, indica solitudine, isolamento di chi è tagliato fuori da tutto. L’uomo è solo perché è uomo; del resto ogni creatura è sola. Mai come oggi noi sentiamo l’isolamento, la solitudine. La solitudine se è in Dio diventa una gioia; se è in noi stessi, diventa un tormento, un inferno.
Nel secolo scorso e all’inizio di questo secolo l’umanità scoprì la persona e lottò per questa scoperta; oggi, all’inizio della rivoluzione tecnologica, l’umanità, soprattutto i giovani, stanno riscoprendo un’altra cosa fondamentalmente cristiana: l’interpersonalità, cioè le relazioni di persone, questo collegamento. Anche in Dio, che è uno, ci sono Tre Persone, cioè tre relazioni.
I giovani sentono la spinta fortissima verso l’unità, verso la comunità. La sentono in una maniera formidabile. L’unità è un’idea cristiana che squassa tutti i continenti come un terremoto; attraversa come un guizzo di luce elettrica tutti gli animi. Mai come adesso la si sente, perché mai come adesso l’uomo avverte il suo isolamento.
L’esistenzialismo è una filosofia del nostro tempo perché ha messo il dito sulla piaga che si chiama isolamento, solitudine; solitudine disperata. L’uomo è solo. Del resto ogni creatura è sola. «Essere vivo» significa essere in un corpo separato da tutti gli altri corpi. Essere separati significa essere soli. Ma l’uomo non è soltanto solo; a differenza delle altre creature, sa di essere solo; è consapevole del suo isolamento; è il suo destino di esserne consapevole.
Nel libro del Genesi si legge: «E il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo”» (Gn 2,18a).
La grandezza dell’uomo è che ha in se stesso il suo centro; appunto perché separato dal mondo è in grado di contemplarlo; solo perché può contemplarlo può conoscere il mondo, amarlo e trasformarlo. Dio nel farlo signore del mondo, della terra, dovette separarlo e gettarlo nell’isolamento. Solo chi ha in sé un impenetrabile centro è libero; soltanto chi è solo — ma della solitudine che è legata a Dio, e quindi non dissociata dal peccato — può affermare di essere un uomo. Questa è la grandezza dell’uomo, ma è anche il suo rischio, il suo pericolo, la sua angoscia.
La parola isolamento esprime il dolore di essere solo. La parola solitudine è bivalente: può indicare l’isolamento, e diventa un tormento; può anche essere una ricchezza perché collega nel silenzio a Dio; allora è una pienezza di gioia: «beata solitudine».
Le molte facce dell’isolamento
Occorre osservare le molte facce che può avere l’isolamento. C’è il senso di isolamento che si prova quando quelli che ci hanno aiutato a dimenticare di essere soli, ci lasciano, o perché si separano da noi, o perché muoiono. La morte di una persona cara ci fa sentire il nostro isolamento più acuto, più terribile che provoca in noi una piccola morte. Basta avere le orecchie aperte all’amore, per sentire il sospiro di innumerevoli individui solitari che gemono soli intorno a noi e per tutto il mondo.
C’è l’isolamento inasprito quando ci si trova soli nella folla. Pur essendo circondati da tanti, bruscamente ci si rende conto del nostro assoluto isolamento.
C’è l’isolamento di quelli che nonostante il loro sforzo di amare e di essere amati, sentono che il loro amore viene respinto. Un tale isolamento taglia i nostri vincoli col mondo, ci getta nella disperazione.
L’isolamento più terribile è quello della colpa, perché il peccato è esclusivamente nostro e taglia tutti i collegamenti. Nel peccato c’è la dissociazione, l’alienazione.
Infine c’è l’isolamento totale che ci fa paura: la morte: solitudine radicale, ci separa completamente. Come si può vincere l’isolamento e farlo diventare solitudine in Dio?
Gli aspetti religiosi della solitudine
La solitudine ha molti aspetti religiosi, perché sono molti i modi in cui si può cercare e sperimentare la solitudine con Dio.
«Religione — diceva un filosofo — è ciò che un uomo fa con la sua solitudine».
C’è la solitudine del contatto con la natura che è già una piccola partecipazione a Dio. Come Gesù amava il lago, la montagna! Noi possiamo parlare senza parole agli alberi, alle nuvole, alle onde del mare, e senza parole gli alberi col loro fruscio, le nuvole col loro vagare, il mare col suo sciacquio ci rispondono; ma questa solitudine la possiamo godere solo per breve tempo; poi ci stanca.
C’è la solitudine artistica: per esempio, il raffinato godimento spirituale della musica, della contemplazione di un quadro, della meditazione; ma anche questa solitudine ci protegge senza isolarci. Oggi l’inflazione delle parole e dei mezzi di comunicazione distrugge in noi anche il desiderio di solitudine, di tranquillità, di contatto con Dio. Arriva però il momento in cui Dio ci prende e ci scaglia nella solitudine per purificarci; è quello che il profeta diceva: «Ero solo, perché la tua mano, o Signore, era su di me».
Dio vuole che noi rientriamo profondamente in noi stessi; sentiremo alle radici del nostro essere il chioccolio dell’acqua viva dello Spirito Santo; sentiremo i Tre che vivono in noi. Ma questa solitudine la si trova solo nella preghiera. « Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione» (Lc 6,12). La preghiera ci mette a contatto con Dio e in Dio ci mette a contatto con i fratelli. La Comunità verso cui tendono irresistibilmente i giovani si forma esclusivamente in Gesù; non è possibile diversamente perché Gesù dice: «Io sono la Porta delle pecore» (Gv 10,7); non dice dell’ovile, ma delle pecore. «Chi va alle pecore per altra maniera, è un ladro e un predone» (cf Gv 10,1). Va a portar via qualcosa che non dovrebbe; non dà nulla e rovina tutto. Solo in Gesù noi possiamo comunicare con gli altri, perché solo in Dio noi facciamo contatto con gli altri esseri.
Per fare comunità
La preghiera sale prima fino a Dio e poi da Dio ritorna al tu del prossimo.
In questo modo l’isolamento dell’uomo non viene eliminato, ma viene incluso nella comunanza con ciò su cui convergono i centri di tutti gli esseri umani; si fa comunanza con tutti. Tutti i cuori tendono a Dio. Ecco perché l’amore è claustrale; l’amore rinasce continuamente nella solitudine, nella preghiera. Per fare Comunità, occorre pregare, occorre essere immersi nel Cristo. Solo la presenza dell’Eterno può aprirsi un varco fra le mura che isolano il temporale dal temporale. Un’ora di solitudine con Dio ci avvicina infinitamente a quelli che amiamo, assai più di molte ore di contatto fisico, perché (con una frase biblica) possiamo «condurli con noi sui monti dell’eternità» (cf Es 15,17). Nella povertà di questa solitudine con Dio è presente ogni ricchezza. In Dio noi troviamo gli altri e conosciamo noi stessi. La crisi forte dell’isolamento, che avvertono i giovani, viene risolta solo in Gesù. Mi diceva qualche giorno fa il vescovo di una città del Nord, una persona molto intelligente: «Guardi: questa città, centro storico, conta 43.000 abitanti: la periferia si è sviluppata enormemente. Noi non possiamo mandare sacerdoti giovani in periferia, perché vengono subito assorbiti e bruciati. Tutti; uno dietro l’altro. Il contesto sociale, il contesto mentale e psicologico della periferia li assorbe, li brucia e li distrugge. Non hanno abbastanza preghiera». E soggiungeva: «Questo succede anche nelle comunità religiose». Scaduta la preghiera, si avverte disperatamente la solitudine. La comunità allora diventa comunità di regolamento. La solitudine viene inasprita e non si risolve. L’isolamento si risolve esclusivamente in Gesù, che è la porta delle pecore.
LA GIOIA DI PREGARE
«Chi conosce la gioia del pregare, sa pure che v’è in questa esperienza qualcosa di ineffabile e che il solo modo per capirne l’intima ricchezza è quello di viverla: che cosa sia la preghiera lo si comprende pregando.
Gesù continua in noi il dono della sua preghiera, quasi chiedendo a noi in prestito la nostra mente, il nostro cuore e le nostre labbra, perché nel tempo degli uomini continui sulla terra l’orazione che Egli iniziò incarnandosi ed eternamente prosegue, con la sua stessa umanità, nel Cielo.
Nelle condizioni terrene in cui ci troviamo c’è sempre qualche fatica da compiere per pregare bene. Prima di tutto la preghiera richiede da noi l’esercizio della presenza di Dio. Per pregare occorre inoltre realizzare in noi un profondo silenzio interiore. La preghiera è vera se noi non cerchiamo noi stessi nell’orazione, ma solo il Signore. Occorre immedesimarsi nella volontà di Dio» (San Giovanni Paolo II).